L’11 settembre scorso più di un milione e mezzo di cittadini sono scesi per
le strade di Barcellona in favore dell’indipendenza della Catalogna. Se
facessimo una proporzione con il numero di abitanti dell’Italia, sarebbe come
se a Roma si fosse concentrato un fiume di dieci milioni di cittadini. La
manifestazione ha sorpreso per la partecipazione (la più imponente della storia
della Catalogna e una delle più imponenti della storia recente dell’Europa
stessa), per il suo carattere pacifico (non c’è stato assolutamente nessun
incidente) e per la sua trasversalità. L’hanno organizzata le associazioni
della società civile, e vi hanno poi aderito anche partiti politici, esponenti
del governo della comunità autonoma, tutte le categorie sociali ed anche tutte
le generazioni.
Lo slogan era unico per tutti: “Catalogna,
prossimo stato d’Europa”.
Gli analisti politici di tutto il mondo si sono chiesti come mai accadesse
tutto questo in una Catalogna, che fino a quel momento era sembrata tanto
tranquilla. Molti di loro – salvo alcune eccezioni - non hanno colto in
profondità quello che sta realmente succedendo. La maggior parte degli
osservatori ha focalizzato l’origine della manifestazione nel solo fattore
economico, ed ha ignorato un fatto fondamentale: la gente non scende in strada solo
per egoismo economico regionale, c’è anche una motivazione più profonda.
La Catalogna, soprattutto dopo la costituzione di un proprio ordinamento
giuridico nel 1359, ha sempre avuto coscienza di essere un paese a se stante e, dopo
la perdita dell’indipendenza con la guerra di successione del 1714 ad opera
dell’esercito franco-spagnolo di Filippo V di Borbone, ha costantemente cercato
di ritrovare la propria libertà.
Oggi è un paese di 7,5 milioni di abitanti, con storia lingua e letteratura
proprie, e anche un codice civile diverso da quello spagnolo. Dopo la
conquista, però, con un decreto reale del 1716 si abolirono tutti i diritti, l’Università
di Barcellona fu chiusa e si arrivò in pochi anni a proibire l’uso pubblico
della lingua catalana.
È importante tener presente che in tutto questo tempo la gente ha
continuato a sentire viva la coscienza di se stessa come popolo, cioè come nazione.
La rivendicazione di uno stato proprio non è una novità: da più di un
secolo agiscono movimenti politici indipendentisti che sono sempre stati
repressi anche con spietata violenza delle due dittature fasciste del XX
secolo, di Miguel Primo de Rivera e di Francisco Franco, durata quarant’anni. La
stessa costituzione democratica del 1978, ancor oggi vigente, fu il risultato di
una mediazione con le forze armate, in parte ancora franchiste, che temevano proprio
la secessione di baschi e catalani.
Anche in democrazia, quindi, la Catalogna ha dovuto sopravvivere in uno
stato che – più o meno apertamente – ha cercato di limitare il suo desiderio di
autonomia.
Nel 2010 il Tribunale Costituzionale ha abrogato dopo 4 anni di dispute –
su ricorso organizzato dal Partido Popular e firmato da oltre un milione di
cittadini spagnoli - una parte sostanziale dello Statuto di Autonomia di Catalogna, dopo che questo era già in
vigore dal 2006 come Legge dello Stato, approvato dal parlamento spagnolo ed anche
sottoposto a referendum nel territorio della comunità autonoma catalana.
In seguito a queste e molte altre vicende, il senso di appartenenza e
l’indignazione del popolo catalano si sono rafforzati e di conseguenza l’indipendentismo
si è ravvivato. Ciononostante si tratta di una forza pacifica, che agisce
sempre senza violenza e nel rispetto delle regole democratiche e dei principi
dell’Unione Europea, di cui si sente parte.
La maggioranza dei catalani – rappresentata in Parlamento da 78 deputati su
135 - chiede solo di poter fare un referendum di autodeterminazione, che il
governo dello stato rifiuta di concedere.
La crisi economica è forse stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso
ed ha fatto perdere la pazienza ai catalani rispetto a uno stato che non ha mai
smesso di sabotare l’autonomia di questa regione limitandone le competenze,
minacciando la sua politica linguistica – quando tutto il mondo l’approva – e
ostacolando costantemente il suo sviluppo.
Un solo esempio fra molti: si è costruita una rete sovradimensionata di ferrovie
ad alta velocità tutta rivolta alla capitale Madrid, mentre il tratto che
unisce Catalogna e Francia dove passa quasi il 30% delle esportazioni spagnole non
è ancora terminato e i binari esistenti – come in tutto lo stato spagnolo - non
hanno nemmeno lo scartamento europeo.
Anche sulla presunta mancanza di solidarietà rispetto alle altre regioni è
bene chiarire che, se i fondi statali destinati a questo scopo avevano un senso
all’inizio della Transizione democratica,
oggi, dopo trent’anni, sono solo strumento di voto di scambio per i partiti. Si è arrivati al paradosso che vede regioni
meno produttive continuare a ricevere aiuti pubblici arrivando a disporre di un livello di infrastrutture e servizi
superiore a quelle che le stanno aiutando.
La Catalogna di oggi è diventata un laboratorio appassionante soprattutto perché
è la società civile a scandire il tempo della sua storia. Per questo, oggi, in
questo paese tutti discutono di politica
e di quello che succederà nei prossimi anni.