giovedì 6 maggio 2010

Le quattro colonne


Dopo quindici anni di richieste da parte di diverse associazioni come la Xarxa d'entitat Civiques i Culturals pels Drets i Llibertat Nacionals e di promesse non mantenute da parte del Comune, sembrava che entro l’anno sarebbero cominciati i lavori di restituzione di un importante simbolo distrutto dai regimi fascisti succedutisi in Spagna. Parliamo della ricostruzione delle quattro colonne ioniche progettate dall’architetto Josep Puig i Cadafalch, costruite nel 1919 e demolite dal regime di Miguel Primo de Rivera nel 1928.
Anche se con quasi un’anno di ritardo, nell'autunno del 2009 gli architetti Roselló-Santgenis avevano presentato il progetto definitivo e si era potuta fare la gara per l’assegnazione dei lavori.
Usiamo il condizionale perchè già nel febbraio di questo 2010 si sarebbe dovuta posare la prima pietra, ma fino ad oggi non se ne sa nulla.
Speriamo bene.
Approfittiamo per parlare della storia di questo che tutti chiamano "Les Columnes de Puig i Cadafalch", da nome del suo progettista.
Nelle colonne che si innalzano nella prospettiva verso il Palau Nacional, oggi MNAC, è evidente il riferimento alle quatre barres della bandiera catalana ma per capirne il significato è indispensabile un inquadramento storico. Barcellona preparava l’Esposizione Internazionale del 1929 e l'architetto Puig i Cadafalch coordinava tutto l’intervento urbanistico sulla collina di Montjuïc che ancora oggi ospita l’area fieristica. Questo monumento lo disegnò personalmente. Si trattava di un manufatto piuttosto grande, quattro colonne con capitello ionico, alte una ventina di metri e con un diametro di uno e mezzo. Il riferimento all’ordine classico dei capitelli metteva la Catalogna in relazione col mondo antico, democratico, civile. La posizione scelta era nella vista prospettica fra plaça Espanya e il Palazzo delle Esposizioni. La vista dal basso, inquadrata dai due campanili veneziani , poneva, nel punto dove oggi si trova la Font Màgica, le quattro grandi colonne che sopra i capitelli con quattro vittorie alate alla sommità.
L’Esposizione Internazionale si aperse regolarmente nel 1929, ma la dittatura che non sopportava una così evidente allusione alla catalanità fece demolire le quatre columnes.
La Font Màgica occupa oggi il punto esatto dove si trovavano e, dopo molti tentennamenti e proposte alternative, si è convenuto di ricostruirle appena più indietro. Si è scelto di non spostare la fontana, che nel tempo ha assunto un ruolo tradizionale nell’immaginario barcellonese e attira migliaia di persone con il suo spettacolo di suoni e luci. Per questo motivo il ritorno del simbolico monumento non mancherà di suscitare polemiche.

mercoledì 5 maggio 2010

Il Palau de la Musica catalana è un’edificio parlante




Si può affermare che il Palau de la Música Catalana, oltre che l’opera forse più importante del modernismo a Barcellona, è soprattutto un manifesto del catalanismo, spiega attraverso un sistema di simboli, tutti i valori e la storia del suo committente, l'Orfeo Català.

Cerchiamo di spiegarne i motivi con un po’ di storia: l’edificio si trova in carrer Sant Pere més alt, nel tessuto medievale della città, e i 1400 metri quadri del terreno sul quale insiste sono pochissimi rispetto alle necessità funzionali del complesso. Nonostante le dimensioni molto ridotte fu pagato caro e, a parte una base iniziale, la costruzione fu finanziata attraverso una sottoscrizione popolare, senza fondi pubblici. Il promotore della costruzione e a tutt'oggi suo titolare è un'istituzione storica e politica del mondo catalano, l'Orfeo Català. Per adesso diciamo soo che si tratta di un'associazione di canto corale nata alla fine dell'Ottocento, che ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo e diffusione del catalanismo, corrente culturale e poi politica che identifica nell'amore e la riscoperta del proprio paese il proprio obiettivo principale. Lo strumento di quest'associazione è il canto, quindi l'edificio che lo deve ospitare, un auditorium.

L’architetto incaricato del progetto, Lluís Domènech i Montaner, risolse ció che avrebbe potuto essere un problema insormontabile in modo geniale ponendo la sala da concerto al primo piano, sopra gli uffici della sede dell’Orfeó. Il vano d’ingresso, certamente piccolo per gli oltre 2200 posti della sala, è a volte basse e rivestite di ceramica color ocra. La sala da concerto si raggiunge attraverso un doppio scalone con balaustre in colonnette di vetro dorato e se il colpo d’occhio all’entrata dell’auditorium è ancor oggi straordinario, immaginiamo quali sentimenti poteva suscitare negli spettatori dell’epoca.
Entriamo in alcuni dettagli per cercare di spiegare che il Palau è un catalogo di tutto quello che gli artigiani e le piccole industrie sapevano fare e i materiali impiegati sono molto vari e lavorati con sapiente finezza. Il vetro, la ceramica, il ferro battuto che vediamo impiegati nel Palau erano la manifestazione di un tessuto artigianale diffuso in tutta la Catalogna, che gli architetti modernisti seppero impiegare per creare un linguaggio nuovo, moderno appunto.
Un’enorme bolla, galleggiante al primo piano, quasi completamente vetrata, smaterializzata, nella quale il peso della struttura è annullato dalle pareti con vetrate istoriate, come in una cattedrale gotica. L’enorme lucernario decorato diffonde una luce celestiale, insieme con i lampadari agganciati alle colonne e ad un gioco di riflessi vitrei multicolori. Tutto, all’interno della sala, sembra leggero, etereo, poetico. La potente struttura che sostiene il tutto non si percepisce assolutamente, e questo è uno dei grand risultati raggiunti da Montaner.
L’edificio è parlante, un’antologia patriottica, costruito in memoria di Anselm Clavè, l’inventore del canto corale catalano moderno. Un’allegoria dei valori culturali del catalanismo.
All’esterno, sopra l’ingresso, nella parte più alta, praticamente invisibili dalla strada, le pareti sono rivestite di mosaici che raffigurano i cantanti dell’Orfeo davanti a Montserrat. Sopra di loro, una sorta di regina, che rappresenta La Balanguera, da una poesia di Joan Alcover, musicata da Amadeu Vives, uno dei fondatori dell’Orfeo. Nelle terrazzette delle logge, busti di grandi compositori: Palestrina, Bach, Beethoven e Wagner. Ed è proprio a quest’ultimo che tutta la costruzione e la sua simbologia alludono. L’opera d’arte totale: musica, pittura, scultura, nella quale tutti gli artisti mettono il loro genio.
L’apice dell’effetto si raggiunge nella scultura d’angolo dedicata alla Cançó Popular, tanto cara ai promotori dell’Orfeo: vi sono raffigurati il popolo di Catalunya, donne e bambini, contadini e pescatori e la <>Cançó, in forma di fanciulla. Su tutti veglia un grande San Giorgio con la Senyera che garrisce al vento.
Ma anche all’interno il Palau è un trionfo di storie e di simboli. Nella sala, a tre livelli, sempre con balaustre in vetro, si è travolti dal grande proscenio, trasformato in una scultura bianca, che espone l’ideologia dell’Orfeó. Si deve ricordare che il Palau nacque per ospitare i cori, quindi il proscenio ed il palcoscenico dovevano essere in qualche modo arricchiti per dare cornice alle esibizioni musicali, di per se molto statiche.
Proscenio e scena come cornice e fondo, quindi, di un quadro sonoro.
A sinistra, di nuovo la Cançó Popular, il busto di Clavè, baffuto come alla moda del tempo. Il grande salice piangente con due fanciulle che raccolgono e intrecciano ghirlande di fiori è la raffigurazione della canzone di Clavè Els flors de Maig.
Sulla destra, un busto di Beethoven in mezzo a due colonne doriche. In alto, la nascita della musica nuova, rappresentata da una nuvola (o una tempesta) che si trasforma in walkirie wagneriane che con le spade e su enormi cavalli alati, che galoppano verso Clavè dall’altra parte…
Alle spalle del nudo palcoscenico, c’è un fondale a emiciclo pieno di colore, dello scultore Eusebi Arnau. Un vero capolavoro della ceramica, rivestito del tradizionale trencadis che recupera le piastrelle di ceramica rotte. Colori caldi, dall’arancio al rosso e soprattutto diciotto fanciulle che suonano strumenti musicali e indossano abiti medievali. L’innovazione artistica, di grande effetto, Arnau l’ha ottenuta tirando fuori il busto delle ragazze dal fondo piatto e modellandolo a tutto tondo: le ninfe dipinte, diventano sculture ed escono dalla parete.
Insomma, con una modalità del tutto modernista, il Palau è una pubblica esposizione di tutto quello che gli artigiani catalani sapevano fare. E di come intendevano la loro identità.
È una spettacolare metafora, di un gusto per noi oggi forse un po’ esagerato, pensato come auditorium di canto corale ma che, nel tempo, ha accolto ogni tipo di manifestazione, e questo l’ha trasformato in un vero luogo di tutte le musiche.
Forse si è mantenuto un luogo vivo proprio perchè, affiancando ai cori anche il jazz, il balletto, la musica sinfonica, cameristica e i convegni politici, da oltre cent’anni fa battere il cuore dei catalani e di tutti coloro che hanno l’opportunità di vederlo.

http://www.edu3.cat/Edu3tv/Fitxa?p_id=18133&p_ex=palau%20de%20la%20m%FAsica

martedì 4 maggio 2010

Identità e corride




L’avevamo detto, attenzione a quello che succederà intorno alle curses de braus, l’eufemistico nome che in catalano hanno le corride.
Sembra fatto apposta e, anche se non lo è, questa coincidenza ce lo fa pensare. Giusto quando tutti sono concentrati sul dibattito parlamentare intorno alle corride, succede qualcosa di importante e pochi se ne accorgono.
La Commissione Affari Istituzionali del Parlamento di Catalogna ha approvato il 3 marzo una risoluzione di appoggio alle ben note consultazioni popolari senza valore legale che pongono il quesito: “Lei è d’accordo che Catalogna diventi uno stato di diritto, indipendente, democratico e sociale, integrato nell’Unione Europea?” e, nel finale, la mozione approvata incoraggia la società a partecipare attivamente alle prossime consultazioni.

Finché in una Commissione si dibattono -in modo spettacolare- temi sociali, culturali e umanitari come l’abolizione delle corride, in un’altra si approva un testo importante sul tema -ben più sentito- e veramente popolare, l’autodeterminazione.

Interessante notare che, nonostante qui in Catalogna tutti si siano affrettati a specificare che la legge sulle corride non coinvolge questioni identitarie, diverse altre Comunità Autonome -seguendo l’esempio di Madrid- propongono una legge che tutela la corrida proprio come espressione della cultura e dell’identità del popolo spagnolo.

Ci domandiamo allora dove si stia veramente discutendo veramente dell’ identità del popolo catalano, se lo scorso anno le corride in Catalogna sono state 16 e il numero di cittadini che hanno votato alle consultazione si conta in centinaia di migliaia.

lunedì 3 maggio 2010

Fortuny, il mago di Venezia




Proust lo chiamava così, ed aveva ragione. Mariano Fortuny era nato a Granada nel 1871, in una famiglia dell’alta tradizione della pittura iberica. Il padre -del quale ricordiamo La battaglia di Tetuan visibile al MNAC- era barcellonese e la madre proveniva dalla famiglia dei Madrazo, pittori della corte spagnola. Rimasto orfano del padre a soli tre anni, Mariano fu portato nella Ville Lumière per essere educato nel migliore dei modi. Fattosi grande, cominció a viaggiare per le più importanti città del vecchio continente. L’Europa culturale era una realtà e Venezia ne faceva parte. Non era solo decadente come la descrive Thomas Mann, ma anche centro vivo di cultura e società. Richard Wagner, come molti altri del suo tempo, visitava spesso la città lagunare e vi morí nel 1883.
Gli interessi di Fortuny spaziavano dalla pittura alla fotografia, alla moda al teatro. E decise di vivere nella città della luce per antonomasia, Venezia.

Anche se completamente immerso nell’eclettismo di fine Ottocento, entró nel nuovo secolo con invenzioni spettacolari che ancora oggi si usano nei teatri di tutto il mondo. Mise in produzione una cupola in tela che permise di passare dal vecchio sistema scenografico con fondali dipinti, agli effetti cangianti della luce elettrica riflessa dalla cupola stessa.
Nel 1900 il Teatro alla Scala di Milano mise in scena la sua scenografia di Tristan und Isolde. Fortuny, con la sua raffinata creatività, era uno degli artefici dell’opera d’arte totale wagneriana.
Tutte queste attività lo portarono anche ad utilizzare la componente catalana del suo carattere, quella di home de negocis, in italiano uomo d’affari. Fece società con un gigante dell’industria dell’epoca, la tedesca AEG Allgemeine Elektrizitaets-Gesellschaft, per produrre i suoi apparecchi a luce indiretta per il teatro, e con Giancarlo Stucky industriale veneziano, per mettere in piedi la fabbrica di tessuti che ancora oggi, nell’isola della Giudecca, produce tessuti stampati con tecniche segrete.
Molto di ció che Mariano Fortuny ha creato è ancora in produzione. Quasi tutto ancor oggi si puó comprare, salvo forse il suo vestito Delphos del 1909. Del resto, per il suo prezzo, non sarebbe avvicinabile dai comuni mortali e non lo era neppure allora. Una tunica plissettata, sempre un pezzo unico e irripetibile, che si adattava al corpo come nelle statue greche e tinta immergendola anche in 15 bagni di colore diversi.Delphos era un’abito portato solo poche donne, artiste, ballerine, ricche e sufficientemente libere da ignorare le convenzioni dell’epoca. Sotto il vestito, infatti, non si indossava niente.
La visita all’esposizione di Barcellona puó essere completata con un fine settimana a Venezia per visitare il Museo Fortuny, a palazzo Pesaro degli Orfei. Da qualche tempo è anche visibile la famosa fabbrica di tessuti. Tutte le informazioni sui siti www.fortuny.com e dei musei civici di Venezia.