lunedì 14 luglio 2014

Diada, Elezioni e Via Catalana: quando il popolo si muove



di Giulia Villabruna 




L’11 settembre in Catalogna è festa nazionale.  La Diada - un giorno di festa, in lingua catalana – commemora la caduta, nel 1714 durante la guerra di Successione,  della città di Barcellona sotto il dominio borbonico con la conseguenza dell’abolizione delle istituzioni e delle libertà civili catalane dopo la vittoria delle truppe di Filippo V; sancita nell’art. 8.3 dello Statuto di Autonomia, potrebbe sembrare un controsenso, ma è stata istituita proprio per ricordare la necessità di una «rivendicazione e resistenza davanti all’oppressione».[1] Si celebra una sconfitta per non dimenticare e reagire al pericolo dell’annichilimento, dell’eliminazione.

Nel 2012 più di un milione di persone si sono riunite a Barcellona per difendere Catalogna come «nuovo stato d’Europa». La moltitudine pacifica che aveva riempito le strade reclamava solo “més justícia i més llibertat per a Catalunya”, proprio come aveva sottolineato Artur Mas, presidente della Generalitat catalana, nel suo discorso commemorativo il giorno prima della Diada. L’11 settembre 2012 ha contrassegnato un chiaro momento di svolta nella storia della Catalogna: diverse ragioni – economiche, fiscali, storiche e soprattutto culturali – hanno portato il sentimento indipendentista, fino allora minoritario, ad essere rappresentazione concreta del volere del popolo. Come ha scritto Elena Marisol Brandolini, «un processo democratico e moderno, piantato nel contesto europeo [...] e nella durezza della crisi economica, che obbliga a ridefinire la qualità del modello sociale».[2]

Condivido la descrizione di unimondo.org[3] che, dimostrando informazione sugli avvenimenti, descrive la manifestazione e le evoluzioni che la seguirono con questa frase: «hanno chiaramente sopraffatto perfino il governo catalano, guidato da Artur Mas. Perfino la sua coalizione, Convergència i Unió, pur se storicamente autonomista, non si poteva aspettare una tanto ampia partecipazione alla manifestazione dell’11 settembre. La strategia che ne è seguita è stata quella di cavalcare il sentimento secessionista, spiegando che “non lo si può ignorare”».

Dopo questa grande dimostrazione, il presidente Mas si era recato a Madrid proponendo al presidente del governo Mariano Rajoy un nuovo “patto fiscale”. Alla reazione negativa del leader spagnolo, Artur Mas – cosciente che il suo obiettivo elettorale non poteva più giungere a termine – decise di convocare le elezioni anticipate; la campagna elettorale avrebbe avuto come primo punto la celebrazione di un referendum d’autodeterminazione. 

 

In un articolo de Il Sole 24 ore,[4] Vito Lops spiega in maniera dettagliata e documentata i problemi economici della Catalogna e i motivi delle elezioni anticipate con dati abbastanza fedeli: «Quello che Mas vorrebbe risolvere con il patto fiscale è ridurre il saldo negativo con il resto della Spagna. La differenza di quanto dà la Catalogna e quanto ne riceve si calcola nel 10% del Pil, cioè 16 miliardi l'anno. […] Per queste ragioni vorrebbe ribaltare il patto fiscale ottenendo la riscossione diretta dei tributi, evitando il passaggio da Madrid». L’analisi di Vito Lops si basa su numeri reali e spiega con intento critico il processo economico catalano, dicendo che «l'appartenza alla Spagna danneggia la Catalogna, la cui economia presenta numeri di crescita superiori rispetto alle altre regioni». Nonostante questo, l’articolo sviluppa anche alcune questioni delicate ed esprime un’opinione contraria rispetto alcune parti del discorso di Mas, riguardo il deficit finanziario della Catalogna e nelle relazioni con l’Europa; è indirizzato ad un pubblico informato, e per questo si può permettere di utilizzare un linguaggio specifico e presentare dati precisi.

Dopo le elezioni del novembre 2012, quasi tutte le notizie si presentano come analisi negative dei risultati, commentando che il processo indipendentista di Mas è a rischio. «Sfuma sogno indipendenza»,[5] «il sogno indipendentista si allontana»,[6] «Tramonta il progetto di separarsi dalla Spagna»,[7] «Mas costretto a trattare con Rajoy»[8] i «Artur Mas ha perso»[9] sono titoli che trasmettono molto chiaramente un senso di sconfitta. Negli articoli, le spiegazioni riguardo il numero dei voti e dei seggi del parlamento non aiutano la comprensione della situazione finale, che si definisce solo come «una vittoria relativa che ha in realtà il sapore della sconfitta».[10] Si riconosce che i partiti indipendentisti sono diventati la maggioranza in parlamento, ribadendo dunque il desiderio di distacco da Madrid, ma si aggiunge anche che «si allontanano le possibilità che esso possa trovare un concreto sbocco sul piano politico e costituzionale»;[11] è ingannevole però parlare di «tracollo dei nazionalisti».[12] La spiegazione di euronews.com,[13] ha tutto un altro stile e spiega con toni più tranquilli una «vittoria dal gusto amaro» che porta «la strada verso l’indipendenza di una delle regioni più ricche di Spagna [è] molto più in salita». Il giornale digitale Il Post[14] enfatizza la campagna elettorale e segnala la strategia politica di Mas di voler privilegiare la questione dell’indipendenza per non parlare del tema, senza dubbio più sfavorevole, degli enormi problemi economici che sembra avere la regione: «un debito di 42 miliardi di euro, sui 140 miliardi del debito globale delle regioni spagnole, nonostante sia tra le più produttive del paese. Al governo centrale la Catalogna ha dovuto chiedere un prestito di 5 miliardi di euro per rimettere in sesto le proprie finanze».

Dei problemi e delle possibili conseguenze parla anche Daniele Mastrogiacomo de La Repubblica,[15] che descrive uno scenario quasi apocalittico: «Subire il distacco della Catalogna, aprire le porte verso una secessione, finirebbe per far rivivere i vecchi fantasmi della guerra civile, rafforzerebbe le aspirazioni indipendentiste di tante altre regioni e getterebbe nel panico Madrid costretta a rinunciare a 1/5 del suo pil», il futuro della Catalogna è «un vero disastro» che però il giornalista non supporta con dati verificabili e spiega solo con generiche affermazioni, come ad esempio i «dieci problemi con cui dovrà fare i conti la futura, ipotetica Catalogna indipendente». Si tratterebbe di un «blocco finanziario della regione (ha il debito più alto, con 42 miliardi di euro)», «banche che perderebbero il loro accesso all'euro», «un'improvvisa inflazione», «uscita dalla Comunità europea», «una caduta di almeno il 50 per cento delle esportazioni, con tutti gli effetti depressivi sulla produzione e la stessa occupazione».

Dettagliato, ben scritto e ben sviluppato il quadro di Nicolò Cavalli i Ludovico Poggi per linkiesta.it.[16] Le alleanze fra i due principali partiti, la coalizione Convergència i Unió Democràtica de Catalunya (CiU) ed Esquerra Repúblicana de Catalunya (ERC), dopo le elezioni, vengono raccontati in maniera appropriata, con toni sobri, adeguati a un pubblico non molto informato. Lasciano la parola al professor Francesco Fasani, affiliate professor a la Barcelona Graduate School of Economics, che spiega: «la politica catalana si svolge lungo due assi ortogonali: il primo asse è determinato dall’adesione o meno alla causa indipendentista. Il secondo si muove lungo le linee tradizionali di destra e sinistra», così si può capire, in modo semplice e breve, l’atteggiamento dei partiti, «L’enfasi sugli uni o sugli altri temi può determinare convergenze che altrove sarebbero improbabili».  Precisa anche la descrizione della relazione fra le forze politiche di Mas e Rajoy: il primo presentato come «leader dimezzato», il secondo disegnato come «vincitore silenzioso» però capace di un «potere negoziale che nessuno si attendeva alla vigilia delle elezioni», «consapevole che, senza le entrate fiscali provenienti dalla Catalogna, i problemi di bilancio di Madrid non potrebbero che aggravarsi». Un’altra volta si pone l’attenzione nelle relazioni con l’Europa e si conclude brillantemente parlando di processi che non coinvolgono solo la Catalogna, ma anche altri stati europei e che sono «più intensi laddove vi è un’identità culturale e linguistica e sono rafforzati dalla crisi economica. Tocca all’Unione Europea comprenderli e governarli, per evitare a sua volta di implodere».

Quest’articolo si può paragonare a un altro preciso e approfondito, addirittura con schemi e grafici, di Gianni Balducci sul giornale digitale agoravox.it.[17] Una rassegna dei risultati elettorali che spiega il posizionamento ideologico e politico di ogni partito e i seggi persi o conquistati. La conclusione è interessante, e attraverso una definizione del giornale catalano La Vanguardia si definisce CiU come «la Democrazia cristiana italiana», curiosa definizione che – pur non essendo del tutto corretta – aiuta il lettore a crearsi un’immagine del partito. Il dettaglio di governo di CiU è così riassunto: «guiderà il nuovo governo ma dovrà scendere a compromessi, soprattutto sul lato economico, con ERC; in ogni caso la causa dell’indipendentismo non potrà più contare su una guida unitaria e unificante come accaduto altrove in situazioni simili e come sarebbe necessario per il suo successo». Parlando di partecipazione al voto, bisogna segnalare il dato di 69,6% che è il più alto dal 1980 ad oggi.

Nel complesso di articoli sulle votazioni, è più corretto dire che le elezioni «hanno restituito un risultato che premia le forze politiche favorevoli al dret a decidir, ovvero alla consultazione del poble de Catalunya sulla questione dell’indipendenza» come ha esposto il professor Gennaro Ferraiuolo ne “La Via Catalana. Vicende dello stato plurinazionale spagnolo”.[18] Secondo lo stesso Ferraiuolo, i dati sono sbagliati perché è stata sopravvalutata «la valutazione del risultato – negativo – del partito di maggioranza relativa con quella concernente il generale andamento delle elezioni in rapporto allo scenario politico catalano». È importante sottolineare un altro aspetto del quale si parla troppo poco: il sentimento d’umiliazione per la decisione del Tribunale Costituzionale spagnolo  di dichiarare incostituzionali diversi articoli dello Statuto di Autonomia di Catalogna, nel 2010. Lo Statuto è entrato in vigore nel 2006, dopo essere stato approvato da parte sia del Parlamento catalano che da quello spagnolo e dopo la ratifica con un referendum in Catalogna: quattro anni dopo, il TC ha dichiarato l’”inefficacia giuridica" del termine "nació", anche se questa parola rimane riferita alla Catalogna, ed ha annullato alcuni articoli dello statuto, dichiarandoli incostituzionali. A Barcellona, dopo la risoluzione, l’associazione Òmnium Cultural  ha organizzato una grande manifestazione che, sotto lo slogan Som una nació, nosaltres decidim, è stata considerata il preambolo a tutte le successive a favore dell’autodeterminazione della  Catalogna.


[1].  «reivindicació i resistència activa enfront de l’opressió» e «suposava també l’esperança d’un total recobrament nacional»  Estatut d'Autonomia de Catalunya, Parlament de Catalunya, 2006
[2]. Brandolini, Elena Marisol. Catalunya-Espana. Il difficile incastro. Ediesse. Marzo 2013.
[10]. Vedi nota 6.
[11]. Vedi nota 7.
[14]. Le elezioni in Catalogna. Il Post, 26/11/2012.
[18]. Ferraiuolo, Gennaro. La Via Catalana. Vicende dello stato plurinazionale spagnolo. Federalismi, rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 9/09/2013. Pag. 4.