lunedì 29 novembre 2010

I falsi amici



Prima di parlare delle elezioni del parlamento catalano è utile fare una precisazione lessicale. Le parole non hanno lo stesso significato dappertutto. Il sostantivo nazionalismo, usato in Italia o in Germania, possiamo dire che sia quasi un insulto. 
Il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli lo definisce testualmente come “Tendenza e prassi politica fondata sull’esaltazione dell’idea di nazione e nazionalità”.  Secondo il Diccionari de la llengua catalana dell’Institut d’Estudis Catalans nacionalisme è “Ideologia i moviment que reivindica l’organització política independent d’una nació” .
È chiaro che quando in due lingue lo stesso termine ha significati diversi - in linguistica questi casi si chiamano “falsi amici” - una traduzione superficiale e inesatta può portare a un’erronea  interpretazione dei fatti.
I due vocaboli italiani più adatti per tradurre nacionalisme sono indipendentismo e catalanismo, a seconda dei casi. Per poterne comprendere a fondo il significato è indispensabile conoscere la storia della Catalogna, che vede nella cultura e nella lingua segno di vitalità e veicolo della propria stessa sopravvivenza.

La politica in questo paese, a nostro modo di vedere, è da interpretare riferendosi prima che a ogni altra cosa a questa contrapposizione fra le formazioni che impostano la politica in chiave spagnola a quelle che lo fanno in chiave catalana. Naturalmente ci sono molte sfumature e nei partiti convivono spesso le due anime.

Questa premessa, forse un po’ lunga, ci permette di capire come mai  i partiti confederati Convergència Democràtica ed Unió Democràtica de Catalunya (CIU) sono tornati al potere e perché il Partit dels Socialistes (PSC), con i suoi soci nel governo tripartito Esquerra Republicana e Iniciativa per Catalunya, ha perso le elezioni. 
La risposta sta nel quoziente di indipendentismo e nell’insoddisfazione degli elettori che si sono spostati da un partito all’altro.

I socialisti in Catalogna hanno una base legata al Partido Socialista Obrero Español di Zapatero, e un’altra componente più catalanista e propensa alla mediazione. Quelli che nel loro elettorato vedono le cose in chiave spagnola non hanno gradito l’attivismo indipendentista di Esquerra Repúblicana al governo e hanno deciso di votare un’altra compagine che riflette meglio la loro sensibilità: è probabile quindi che i voti dell’ala spagnolista del PSC siano andati al Partit Popular, che ha visto così aumentati i consensi fino a divenire la terza forza in parlamento, nonostante le posizioni xenofobe locali e un anticatalanismo viscerale nel resto di Spagna.

Il conto più salato lo ha pagato Esquerra Repúblicana, che ha dimezzato i consensi. L’emorragia di voti si spiega sempre con la stessa chiave: gli elettori di questa formazione, storicamente indipendentista, non hanno sopportato lo spagnolismo dei socialisti ed hanno optato per CIU, catalanista da sempre e che raccoglie anche molti indipendentisti, soprattutto dopo la manifestazione che il 10 luglio scorso ha visto in piazza un milione e duecentomila persone reclamare l’autodeterminazione per il popolo catalano. I più arrabbiati hanno poi optato per la neonata Solidaritat Catalana di Joan Laporta, che propone la dichiarazione unilaterale dell’indipendenza dallo stato spagnolo come primo obiettivo per poter procedere all'amministrazione di uno stato proprio, nel seno dell'Unione Europea.

Convergència Democràtica de Catalunya ha ha avuto in Jordi Pujol il leader capace, in 23 anni di governo, di costruire un paese ma anche i problemi che hanno tutti i partiti quando mantengono il potere per troppo tempo: se non si è trattato di corruzione, di sicuro è stato malgoverno. Ciononostante, nei sette anni di traversata del deserto e con una campagna elettorale ottimamente condotta, i suoi dirigenti sono riusciti a convincere tutti i catalani che il loro progetto è valido. Ripetiamo tutti i catalani, perchè hanno avuto la maggioranza di voti in tutti i collegi elettorali del paese.

Il presidente uscente Josè Montilla, primo segretario del PSC, annusava da tempo la disfatta e non riusciva a dominare il nervosismo. Alla fine si è riscattato moralmente assumendo la responsabilità e annunciando che non si ripresenterà come segretario e, all’ultima ora, lasciando anche il seggio che gli spetta come capolista in parlamento. Non tutti sanno fare autocritica in questo modo.

Artur Mas sarà dunque il presidente dei una delle più antiche istituzioni di autogoverno d’Europa, la Generalitat di Catalunya. Aveva passato gli ultimi sette anni lavorando in parlamento e nel territorio, sapendo che la maggioranza degli elettori aveva votato per lui ma accettando l’unione che tre partiti avevano messo insieme per governare il paese in nome della sinistra. Nel discorso della notte della vittoria elettorale ha dato, fra le molte, tre parole d’ordine che fanno ben sperare: umiltà, responsabilità, speranza. Non tutti sanno vincere in questo modo.


Se è vero che il fattore catalanista si è rivelato più importante dell’unione in nome della sinistra ed ha portato il tripartito alla sconfitta, è altrettanto vero che il nuovo presidente dovrà fare attenzione all’altra parte importante del suo elettorato, quella indipendentista. E, naturalmente, ai falsi amici.