lunedì 28 luglio 2014

Magliette, estelades e Lega Nord: la politica fa parlare di sè

di Giulia Villabruna  
dalla tesi di laurea «La qüestió catalana a la premsa italiana»



Partendo dal grande risultato della Diada dell’anno precedente, l’Assemblea Nazionale Catalana ha organizzato nel 2013 la “Via Catalana”, una catena umana pacifica per manifestare a favore dell’indipendenza. Quasi due milioni di persone hanno riempito, l’11 settembre, le strade delle città catalane (cinquecento mila partecipanti solo a Barcellona) per creare una fila di più di 400 chilometri che ha attraversato simbolicamente tutto il paese. All’estero, anche i catalani nel mondo hanno commemorato l’anno 1714 organizzando un centinaio di catene umane, sempre alla stessa ora: le 17:14.

La reazione è stata imponente e a tutto il mondo è arrivata la voce della causa catalana: i mezzi di comunicazione internazionali hanno descritto in maniera dettagliata le motivazioni e la partecipazione e ne hanno commentato le conseguenze politiche. Secondo il giornale online Il Post[1]  i manifestanti  lamentavano «un trattamento ingiusto da parte del governo centrale di Madrid riguardo alle tasse e ad altre questioni culturali, come lo status della lingua catalana».

In Italia tutto il gruppo parlamentare della Lega Nord ha deciso di presentarsi, proprio l’11 settembre, alla sessione del parlamento con delle magliette con l’estelada, la bandiera indipendentista. I giornali hanno immediatamente commentato il fatto come una dimostrazione «in sostegno dei catalani» - con le magliette definite «anti-Madrid» (Corriere della Sera,[2] Libero[3]) – perché la Lega supportava l’iniziativa «guardando a una vittoria dei catalani come possibilità di apertura di una secessione tra nord e sud anche in Italia».[4] La sezione italiana dell’Assemblea Nazionale Catalana ha diffuso un articolo[5] dissociandosi pubblicamente dall’avvenimento e collocandosi, fra sorpresa e preoccupazione «al polo opposto di questo partito politico italiano di estrema destra, xenofobo e omofobo». 
Uno dei deputati della Lega Nord, Marco Rondini, ha cercato di spiegare il motivo della manifestazione:[6] «Per stabilire un legame ideale tra noi, popoli padani, e il popolo catalano che da decenni è il simbolo di un autonomismo felice ed efficiente». Le motivazioni stesse del gesto denotano mancanza d’informazione anche da parte di chi si presenta come difensore della causa. Affermando che «L’11 settembre del 1714 si ricorda in Catalogna la sollevazione del popolo rispetto alla dominazione straniera...» si commette, più o meno volontariamente, un falso storico.

La questione che la Lega Nord per l'Indipendenza della Padania si possa considerare come l’espressione in Italia di un sentimento indipendentista, trova risposta nella sua stessa storia: è un vero e proprio partito politico nato, agli inizi degli anni novanta, dalla confederazione di diversi movimenti regionali come la Lega Lombarda o la Liga Veneta. Anche se tende a presentarsi come movimento d’indipendenza simile ad altri in Europa, risponde a un’ideologia molto diversa: se le connotazioni principali del suo programma politico erano inizialmente l’autonomia e la secessione del Nord, ben presto le basi della sua protesta si sono indirizzate verso la xenofobia mista al populismo della coalizione elettorale del 1994 con Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi. Dopo una rocambolesca proclamazione unilaterale dell’indipendenza della Padania rimasta senza nessun esito pratico, la Lega ottenne un risultato significativo verso la decentralizzazione con l’approvazione del parlamento italiano, grazie anche ai voti del centrosinistra, dell’articolo V della seconda parte della Costituzione (art.118).

L’abbraccio con la destra berlusconiana – deciso forse per motivi economici – risulterà mortale, se non per il partito, almeno per la sua lotta indipendentista. L’unico esito di una lunga permanenza al governo con Berlusconi sarà il referendum, perso, su una legge detta di “devolution” cioè di passaggio di competenze alle regioni. Nonostante le successive vittorie che portano la Lega al governo nelle principali regioni del nord, l’argomento dell’indipendenza viene chiuso nel cassetto. Nel 2012, dopo i casi di corruzione che portano alle dimissioni di Umberto Bossi, l’idea dell’indipendenza ritorna timidamente nei discorsi del nuovo segretario Salvini, ma è superata dalla deriva xenofoba, evidenziata  dallo slogan “Prima il Nord” adottato nel V Congresso Federale dello stesso anno.

La storia della Catalogna, ben diversa, ha radici, tradizioni e basi culturali medievali, e più di tre secoli di lotte con l’unico obiettivo di recuperare l’indipendenza perduta nel 1714. Tutto ciò è spiegato nell’articolo di Sergio Salvi pubblicato sul giornale digitale lindipendenza.com,[7]: il pezzo compara il sentimentalismo leghista e le rivendicazioni catalane. Dopo un interessante confronto sull’uso del termine “nazione” e “regione”, Salvi ripercorre la storia della Catalogna in maniera rapida e sintetica, però efficace: dal Medioevo fino ai giorni nostri si spiegano le dominazioni, la lotta per la conquista dei territori e la divisione – a causa dell’annessione spagnola e del seguente centralismo – in tre entità separate ma con molti sentimenti in comune (Catalogna, Isole Baleari e Comunità Valenzana, più il Principato indipendente di Andorra). Salvi non dimentica di dire che bisogna distinguere la «Catalogna-regione» dalla «Catalogna-nazione», perché «nella distrettuazione imposta da Madrid esiste una “comunità autonoma” denominata Catalogna che ha una personalità giuridica propria, circoscritta da confini precisi entro i quali esercita i propri poteri riconosciuti dalla costituzione e può esprimere i suoi intenti politici in termini politico-istituzionali». Esiste, secondo Salvi, una «coscienza nazionale unitaria», un’unica lingua catalana, «ufficiale nella Catalogna propriamente detta, a Valenza […] e nelle Baleari» e numerosi dialetti. Il giornalista conclude con una riflessione indirizzata alla Lega: la lotta politica dei catalani è una lotta nazionale e non regionale, e i padani «dovrebbero uniformarsi a questo esempio e recuperare il tempo perduto nelle diatribe tra veneti e lombardi […] ritrovando una unità profonda che si nasconde dietro troppe facciate». Le mancanze del pensiero leghista si riassumono in «una ignoranza imperdonabile», «una mitografia irresponsabile», «un particolarismo ingiustificabile (economicamente, culturalmente e politicamente)», e «un realismo stolto».

Il post[8] di d'Adrià Mainar Scanu, su quest’argomento è esemplare. L’autore, storico e archeologo, dal suo blog costruisce un’immagine storica perfetta della Catalogna e di un’improbabile comparazione con la Lega Nord. Solida e interessante la cronaca dell’unificazione d’Italia e i commenti che ne seguono: «non c'è stata nessuna formazione statale o nazionale che si possa paragonare con l'idea della Padania. Lasciando da parte la Sardegna e qualche altro territorio periferico, la maggior parte della penisola partecipa al progetto d'unità. È per questo che evidenziamo che nella penisola italica, prima dell'unificazione e malgrado le differenze regionali, esisteva già (almeno nei circoli intellettuali) una coscienza di nazione multi-statale che bisognava unire politicamente. In questo senso, i territori settentrionali dell'Italia non solo si sentivano inclusi ma anche sono stati loro a promuovere l'operazione»,  con una riflessione finale molto attenta: «qualunque comunità politica accomunata e radicata al suo territorio dovrebbe avere il diritto di autodeterminazione. […] Ma quello che non potrei accettare è che si faccia riferimento a nazioni incerte o direttamente inventate per giustificare politiche esclusiviste e xenofobe».  L’indipendentismo catalano - scrive Mainar Scanu - non è reclamato solo da un partito politico, come succede nel caso della Lega Nord , ma corrisponde ad un gran  numero di opzioni politiche. Il caso della Padania si trova al polo opposto, perché «il suo nazionalismo è solo rappresentato dalla Lega, partito con delle idee che non si trovano nell’indipendentismo catalano. Così, nell'ideologia leghista troviamo un etnonazionalismo esclusivista e xenofobo, senza nessuna volontà di includere tra i suoi cittadini le persone foranee».

Su quest’argomento è molto deciso anche Jordi Pujol, “padre fondatore” della Generalitat de Catalunya moderna; nell’intervista alla giornalista Concita de Gregorio:[9] «noi catalani non conosciamo la xenofobia. In Italia sì, mi pare. Qui no. Il tema dell'indipendenza, al contrario di quel che avviene altrove, anche da voi in passato con la Lega, non ha niente a che vedere con il disprezzo dello straniero del più debole né è una ragione solo economica».

Di un “problema Lega” parla anche Gennaro Ferraiuolo su vilaweb.cat [10] L’occasione è la visita in Catalogna del leader del partito e presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, e il successivo colloquio con il presidente della Generalitat Artur Mas. I giornali spagnoli hanno ampiamente commentato la notizia, etichettandola come «incòmoda»[11] per la natura stessa di Maroni, definito «polémico dirigente de la Liga Norte […] cuyas actuaciones y declaraciones han sido calificadas de abiertamente racistas»[12] e il professor Ferraiuolo non manca di sottolineare il comportamento dei ministri del partito negli ultimi anni. «È razzista un partito che utilizza come strumenti di contrapposizione politica espressioni come 'negro', 'orango', 'ebreo', 'finocchio'? Non si tratta di fenomeni di costume - gravissimo, per una democrazia civile, considerarli tali - ascrivibili a qualche isolato militante, ma condotte poste in essere da persone che rivestono (o hanno rivestito) posizioni istituzionali di primissimo piano: parlamentari, europarlamentari, ministri della Repubblica». L’accoglienza di Maroni, dal punto di vista istituzionale, è stata molto prudente e formale (non sono stati ammessi né giornalisti né fotografi) e inevitabilmente ha fatto tornare alla mente il 1993, quando l’allora presidente della Generalitat Jordi Pujol non accettò di ricevere lo storico segretario della Lega Nord  Umberto Bossi. «A dominare i commenti è una fredda cortesia istituzionale quando non l’aperta ostilità» scrive Salvatore Antonaci[13] in un articolo con un titolo piuttosto evocativo «La Catalogna gela Maroni, solo cortesia istituzionale», nel quale si spiega chiaramente che le alte sfere del parlamento catalano non hanno affatto gradito la visita e di fatto hanno approvato la decisione di Mas di non permettere conferenze stampa congiunte né foto ufficiali.


[2]. Anche Bossi con la T-shirt anti Madrid. Corriere della Sera. 12/09/2013.
[3]. Bossi con la t-shirt anti Madrid. Libero quotidiano. 12/09/2013.
[4]. Vedi nota 32.
[8]. Vedi nota 1.



lunedì 21 luglio 2014

Rebus catalano

di Giulia Villabruna 
dalla tesi di laurea «La qüestió catalana a la premsa italiana»

L’articolo Rebus Catalano[1] di Marco Cicala pubblicato nel settimanale Il Venerdi del quotidiano La Repubblica cercava di spiegare il movimento indipendentista attraverso il suo ruolo nella politica italiana. Il punto di vista dell’autore, però, è molto impreciso e dimostra un’interpretazione spostata più verso il polo di Madrid che verso Barcellona. Concretamente, l’utilizzo di certe parole disorienta il lettore italiano che non conosce il tema. Per esempio, la parola “nazionalista” in Italia ha una connotazione molto negativa e pericolosa, e s’identifica politicamente con l’estrema destra fascista. I nazionalismi, soprattutto nell’immaginario italiano e tedesco, si associano con gli ideali totalitari e imperialisti del XIX secolo e con la violenza del nazi-fascismo del XX secolo: è inevitabile che queste parole evochino sentimenti negativi.

Utilizzare la parola “nazionalismo” senza spiegarne il contesto socio-culturale è già una prima manipolazione. Credo che l’affermazione perentoria «il nazionalismo è ovunque di destra. Salvo che in Catalogna» possa facilmente confondere il lettore italiano, trasmettendo l’idea di un contesto politico ambiguo, senza una distinzione esatta fra “destra” e “sinistra”. Il nazionalismo in Catalogna ha sempre avuto un’espressione pacifica e democratica, e non si deve confondere con i movimenti dei Paesi Baschi o della storia d’Italia.

Il Col·lectiu Emma, sodalizio che si impegna a diffondere un’immagine fedele della realtà catalana, ha criticato con forza l’articolo di Cicala; secondo la sua replica,[2] dire che «nelle scuole il castigliano è ormai ridotto a pochissima cosa. Al punto che durante la ricreazione ci sono vigilantes preposti a controllare che gli studenti non parlino spagnolo» è falso.

La questione della lingua, in Catalogna, è senza dubbio uno dei temi più dibattuti ma la descrizione di Cicala non è reale. Già dal 1979 l’articolo 3.1 del primo Statuto d’Autonomia[3] e l’articolo 6.1 dello Statuto del 2006[4], stabiliscono che il catalano è “llengua pròpia de Catalunya” e “com a tal, el català és la llengua d’ús normal i preferent de les administracions públiques i dels mitjans de comunicació públics de Catalunya, i és també la llengua normalment emprada com a vehicular i d’aprenentatge en l’ensenyament”. La legge 1/1998 del 7 gennaio di politica linguistica[5] afferma anche che “el català, com a llengua pròpia de Catalunya, ho és també de l'ensenyament, en tots els nivells i les modalitats educatius”.

Bisogna ricordare, tuttavia, che l’art. 3 della Costituzione Spagnola,[6] dichiara che “il castigliano è la lingua spagnola ed è ufficiale dello Stato [...] Anche le altre lingue spagnole saranno ufficiali nelle rispettive comunità autonome, d’accordo con i loro statuti [...]   La ricchezza delle diverse lingue di Spagna è un patrimonio culturale che sarà oggetto di rispetto e protezione speciali[7]”.

Queste divergenze spiegano i diversi punti di vista riguardo la questione linguistica. L’insegnamento della lingua catalana come prima e veicolare esiste dal 1983, dall’approvazione della legge 7/1983 di normalizzazione linguistica,[8] che ha introdotto il sistema di immersione linguistica obbligatorio nella scuola primaria e secondaria . Scrivere che il castigliano non ha spazio nelle scuole senza citare la norma di legge porta, inevitabilmente, il lettore a un’interpretazione ambigua. Sarebbe stato più corretto illustrare l’organizzazione della scuola spiegando che la lingua propria del paese è il catalano e che alcune lezioni vengono impartite in castigliano, con modalità differenti a seconda del tipo di immersione che si è scelta.

È importante sottolineare anche che il sistema dell’immersione linguistica ha dato un grande incentivo alla coesione sociale e migliori risultati riguardo le competenze linguistiche degli scolari. Il Comitato d’esperti della Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie infatti ha riconosciuto, nel 2005, il successo del modello educativo catalano.[9]
La critica a questo sistema scolastico non tiene in considerazione l’importanza che ha avuto durante gli ultimi 10 anni con l’arrivo di circa un milione e mezzo di immigrati – su una popolazione di sei milioni - permettendone l’integrazione, evitando la discriminazione e salvando la lingua e la cultura della Catalogna.

Secondo le ultime statistiche, più del 95% della popolazione capisce il catalano e il 99% il castigliano; il 39% lo considera lingua di identificazione contro il 55% del castigliano:[10] «Da questo si deduce con tutta evidenza l’assurdità di certe posizioni politiche che temono per le sorti del castigliano, o spagnolo tout court, in Catalogna, che gode invece, come si vede, di ottima salute».[11]

In un editoriale pubblicato dal Centro Jordi Pujol[12] questo punto viene spiegato molto chiaramente: «la questione catalana aveva ed ha una componente molto importante d’identità. Di coscienza del paese (...) la Catalogna non è una nazione etnica, e non lo vuole essere. Però è e vuol essere una nazione per lingua e cultura. E per capacità di convivenza. La politica linguistica, culturale e sociale della Catalogna negli ultimi quarant’anni ha rispettato questi principi. Da formazioni politiche e ideologiche non sempre coincidenti, però fondamentalmente d’accordo sui temi del welfare, della convivenza e della lingua. Con l’obiettivo che in Catalogna ci sia il massimo possibile di interrelazioni e di coesione sociale». 


[1]. Cicala, Marco. Rebus catalano. Il Venerdì di Repubblica, 7/06/2013. Pag. 84-86.
[4]. Vedi nota 2.
[5]. Llei 1/1998 de 7 de gener de política lingüística. Generalitat de Catalunya. 1998. 13/11/2013.
[6]. Constitució Espanyola. Parlament de Catalunya. 2007. 13/11/2013.
[7] El castellano es la lengua española oficial del Estado. Todos los españoles tienen el deber de conocerla y el derecho a usarla. Las demás lenguas españolas serán también oficiales en las respectivas Comunidades Autónomas de acuerdo con sus Estatutos. La riqueza de las distintas modalidades lingüísticas de España es un patrimonio cultural que será objeto de especial respeto y protección.

[8]. Llei 7/1983 de normalització lingüística a Catalunya. Generalitat de Catalunya. 1983. 13/11/2013.
[11]. Rigobon, Patrizio. “La lingua catalana tra identità nazionale e cultura globale”. In: Massana, Eulàlia Vega (a cura di), Pensando alla Catalogna: Cultura, storia e società, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2009.
[12]. Catalunya, una nació de llengua, cultura i convivència. Centre d’Estudi Jordi Pujol. 2013. 13/11/2013. «la qüestió de Catalunya tenia, i té, un component molt important d’identitat. De conciencia de país. [...] Catalunya no és una nació ètnica, ni ho vol ser. Però és i vol ser una nació per llengua i cultura. I per capacitat de convivència. La política lingüística, cultural i social de Catalunya durant els darrers quaranta anys ha respost a aquests principis. Des de formacions polítiques i ideològiques no sempre coincidents. Però bàsicament d’acord en temes d’estat del benestar i de convivència i de llengua. Amb l’objectiu que a Catalunya hi hagi el màxim possible d’interrelació i de cohesió».